Era il 18 febbraio 1982 quando i Litfiba, stimolati da Bruno Casini, proposero al Casablanca di Rifredi, Mephisto Festa, un’indimenticabile performance sonora.

Antonio Aiazzi e Gianni Maroccolo, ricordando l’evento e i 40 anni dall’esordio dei Litfiba, parlano in anteprima di “Mephisto Ballad”, il loro nuovo progetto discografico che li vede cimentarsi per la prima volta in duo.

Bruno Casini e Gimmy Tranquillo intervistano Antonio Aiazzi e Gianni Maroccolo, con la partecipazione di Vincenzo Striano, presidente del Centro Casablanca, e Andrea Sbandati di Radio Cento Fiori.

Posted on 13 Dicembre 2020

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Posted on 21 Dicembre 2020
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“Susanna e i vecchioni”, di Mino Maccari
6:59
Posted on 21 Luglio 2020
“L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti “Susanna e i vecchioni”, di Mino Maccari (olio su tela, 1942 ca.) La presenza delle opere di Mino Maccari nella collezione Della Ragione testimonia una personalità impegnata e coinvolta nelle vicende sociali e politiche del proprio tempo. In Alberto Della Ragione bruciava, seppure dissimulata dal suo carattere riservato di elegante borghese, un’autentica passione sociale e una forma di engagement di origine più ideale ed etica che ideologica e politica, che lo portava istintivamente, ma con convinzione, a sostenere battaglie a favore e in difesa di artisti impegnati. Della Ragione si prese cura degli artisti più ribelli e irriducibili come Guttuso e Vedova, di quelli in difficoltà economiche o in pericolo per questioni razziali che ospitò per metterli al sicuro, come fece ad esempio con la famiglia di Mario Mafia e Antonietta Raphael. Fu interessato anche a personalità complesse, dalla biografia non lineare, ma di tempra intellettuale come Mino Maccari. Di Maccari, natura curiosa, estrema, irriducibile martellatore dei costumi sociali e della degenerazione politica, Della Ragione acquistò molte opere, cinque delle quali sono ancora oggi conservate al Museo Novecento. Nato a Siena da una famiglia agiata della borghesia cittadina, Maccari si laurea in giurisprudenza pur avvertendo un’innata propensione alle arti e in particolare al disegno. Uscito dalla prima guerra mondiale, inizia a sviluppare in parallelo alla sua attività forense quella di pittore e incisore, la sua grande passione che lo renderà uno dei protagonisti della cultura italiana in generale e del giornalismo in particolare. Giovanissimo è reclutato da Il Selvaggio, di cui diventerà direttore nel 1926. Lo stile delle sue prime incisioni è fortemente influenzato dall’espressionismo nordico, da Ensor e Grosz, ma anche dalle immagini di Soutine e di Rouault, da cui deriva un sarcasmo acido e amaro, un’ironia graffiante e a tratti devastante, impostata senza pruderie e senza timori per svelare vizi e difetti della società, il turpe e il volgare, l’inettitudine politica e la degenerazione morale, con prese di posizione sempre molto irriverenti e libere. Il tratto nelle sue grafiche e nei suoi dipinti è nervoso e tagliente a tratti violento e aggressivo, i colori sono squillanti e vivaci, dominati da una temperatura sempre espressionistica. Dopo la guerra ebbe compiti istituzionali e accademici importanti, prima all’Accademia di Belle Arti di Napoli, poi a quella di Roma in veste di direttore nel 1959, infine di presidente dell’Accademia di San Luca nel 1962. Merita ricordare la sua collaborazione con il Maggio Musicale Fiorentino per il Falstaff di Verdi di cui disegnerà le scene per l’edizione del 1970. Maccari muore a Roma nel 1989. Susanna e i vecchioni è una storia biblica, conosciuta anche a livello popolare, più volte fatta oggetto di interpretazioni da parte degli artisti del passato. Merita ricordare le opere di Lorenzo Lotto datato 1515 circa e quella di Artemisia Gentileschi realizzata nel 1610 circa, o nella versione ottocentesca di Francesco Hayez. Non possiamo poi non citare Susanna o L’attesa una straordinaria scultura di Arturo Martini anch’essa parte della collezione permanente del Museo Novecento. Susanna nell’interpretazione virulenta di Maccari è una donna di bordello, accerchiata da infocati vecchioni di età diversa, abbrutiti dalla fame di sesso. Con i loro sguardi sembrano violentare il corpo nudo della donna. La pittura è sfatta, come i valori morali dell’ambiente italiano a cui sembra alludere la ‘vignetta’. Un mondo simile a quello analizzato con vena distruttiva dalla pittura o grafica satirica di Grosz cui Maccari deve molto. Il tessuto figurativo si disfa lasciando emergere un impasto sporcato di colori. I volti, le espressioni sono ghigni, come di maschere orribili e orripilanti, quello che si svolge nello spazio compresso, pregno di odori e sudori, morbosi e macerati, è un’orgia, un rito deprimente, forse un sacrificio. L’arte non fa sconti a nessuno, entra senza pudore, rimorsi, sensi di colpa e se si macchia è per mostrare ferite, portandoci al disgusto delle forme per avere disgusto di noi stessi. Prendere o lasciare. Copyright Sergio Risaliti Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini. Montaggio video: Antonella Nicola
“Mia Sorella”, di Ottone Rosai
8:04
Posted on 21 Luglio 2020
L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti “Mia Sorella”, di Ottone Rosai (olio su tela, 1942 ca.) A volte girando per musei capita di incontrare dei piccoli quadri che sono dei veri e propri monumenti dedicati all’umanità più umile e povera. Con immagini ridotte ai minimi termini, l’artista riesce a cogliere e sintetizzare ricordi, sentimenti, emozioni che solitamente si dipanano in una vita intera, che mutano e poi si consolidano in caratteri e personalità inconfondibili tali da definire l’unicità della persona amata, quella a noi vicina per tutta un’esistenza o solo per una breve indimenticabile stagione. A volte il senso di una vita e di una personalità sta racchiuso tutto in un gesto, in una posa, in un movimento appena accennato, magari un tic, una parte di quella persona diventa il tutto, la sua scoperta intimità, l’affaccio sul mondo interiore con le sue gioie e i suoi dolori, le sue pene e i suoi amori. Dall’esempio di Cezanne, indiscusso maestro di un nuovo umanesimo in arte, deriva il ritratto Mia sorella dipinto da Ottone Rosai nel 1921-22 circa. Anni buoni, si potrebbe dire, in termini di collezionismo. Alberto Della Ragione aveva buon occhio e velocità di scelta, ma nel caso di Rosai, l’attrazione deriva dal riconoscere, in questo solido pittore della tradizione fiorentina, una pietas speciale, il cantore di un’umanità umile ma fiera, provata dalla vita, ma moralmente resistente, un’umanità colta nel pieno di una solitudine immensa, pesante come un fardello, vissuta e accettata per sempre come ineluttabile destino dell’uomo tra gli uomini.La sorella è ritratta in una stanzuccia, che diventa immensa per il taglio prospettico con cui è costruita, quasi fosse una cappella di cattedrale, in cui la donna appare come una santa figura in meditazione. La si riconosce intenta forse a cucire, appare esile, gracile, un po’ inarcata, ben vestita e curata nella semplicità e dimessa povertà dell’abbigliamento. Nella stanza non c’è nulla di clamoroso; solo un tavolo, che è assoluto protagonista della scena assieme alla sorella, un panchetto su cui la figura è seduta e una porta ad arco sullo sfondo, a dare un senso di profondità all’interno, aggiungendo, dal punto di vista dei contenuti, qualcosa di non detto all’immagine, esperienza di silenzio e di solitudine, di quiete e lentezza; una porta oltre la quale vi s’immagina riposto quanto di segreto appartiene alla donna, il suo destino e la sua storia, un prima e un poi oltre quella apertura. Al pittore riesce immortalare la pazienza e la cura, l’ascolto e la meditazione, lo snocciolare lento dei pensieri e dei ricordi. Si erge davanti a noi immenso il mondo femminile, con i suoi riti e i suoi sacrifici, guardato con dolcezza e compassione dal pittore, con rispetto e con tutta l’ammirazione che può riservare un uomo di stampo antico, di un artista senza troppe retoriche. Rosai con questo quadro in stile perfettamente toscano anticipa a suo modo le proposte figurative di Valori plastici, Novecento, quelle del “ritorno all’ordine”, di una tradizione italiana gloriosa fondata su Giotto e Masaccio, Paolo Uccello e Piero della Francesca. Quella di Rosai è una strada in salita percorsa in solitudine, di uomo e di artista provato nella vita da eventi drammatici e tristi, e dal trauma irrisolto della morte del padre. Quella dell’ingegnere Della Ragione per Rosai, fu passione di raffinato amante dell’arte, ma stima anche morale e a tratti vera amicizia, tanto che i due per un periodo si dettero per via epistolare anche del tu. Una vicinanza avviata nel 1937 e proseguita per anni, fino al 1941, anno in cui Della Ragione venne coinvolto dalla nuova avventura della Galleria La Spiga-Corrente. Nella sua casa, l’ingegnere dedica così un’intera parete alle opere di Rosai, acquistate via via e lo scrive in una lettera: “ La aspetto qui per mostrarle la situazione dei suoi quadri: il meglio che potevo pel momento, e cioè l’intera parete di destra, da estremo a estremo, del corridoio, dove, al centro, trovansi i Campigli”. Ai quadri si aggiungono poi molti disegni che andranno a far compagnia a quelli di Carrà, Morandi e Sironi. L’artista, da parte sua, informa il collezionista sul suo lavoro e il 15 dicembre 1937 scrive: “ In questo momento ho ripreso a lavorare con gran lena e della serie delle nature morte che mi sono proposto fare la prima è già terminata e non mi dispiace. E’ un fiasco, un bicchiere e dei marroni sopra un piano bianco tovaglia: Inoltre ho fatto un paese. Sono contento e non sento altro desiderio all’infuori di quello di lavorare. Al pensiero dei colori, delle forme sento come se tutto il mio sangue danzasse la danza della gioia. Il lavoro: unica cosa che di un uomo rimane. Sarà il suo passato, la sua storia. Il passato di tutti, la storia di tutti”. Copyright Sergio Risaliti Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini. Montaggio video: Antonella Nicola
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