In questa puntata Chiara Brilli parla de “Il mondo delle autogestioni” assieme a Luca Talluri, presidente Casa SpA; Francesca Busato, responsabile dell’Ufficio Gestione Sociale di Casa SpA; Enrico Crivellari, responsabile autogestione Viale Canova; Daniela Fantoni, responsabile autogestione Via Carlo del Prete; Mauro Mariani, ex-responsabile autogestione Via d’Orso Manni Gelli.
“Case popolari: il sociale che fa rete!” è un reportage dagli immobili di edilizia residenziale pubblica di Firenze. Un progetto di narrazione di servizi e storie per far conoscere l’Ufficio Gestione Sociale di Casa SpA, un nuovo strumento per fare emergere e risolvere i fenomeni di povertà, marginalità e disagio sociale all’interno del patrimonio di edilizia residenziale pubblica ed edilizia sociale.

Posted on 28 Maggio 2019

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LA PIANTA DEL MONDO è il titolo dell'ultimo libro di Stefano Mancuso. Una rilettura delle scoperte e degli avvenimenti più avvincenti della nostra storia, a partire dal contributo delle piante. Perché, dalla musica alle città, c’è una pianta all’origine delle creazioni più straordinarie della nostra società.
Musica… da camera – Francesco Pellegrini: Cent’anni
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Posted on 23 Aprile 2020
Francesco Pellegrini, in arte ‘Maestro Pellegrini’. Polistrumentista, inizia la sua carriera con i pisani Criminal Jokers, insieme a Francesco Motta. Ha suonato con Nada come chitarrista, fagottista e cori, ed ha registrato ed accompagnato dal vivo Andrea Appino (Zen Circus) per il suo secondo disco ‘Grande Raccordo Animale’. Ha inoltre inciso e collaborato con diversi altri artisti quali Enrico Gabrielli, Dardust, Bobo Rondelli, Motta, Il Pan del Diavolo. Attualmente suona in pianta stabile con gli Zen Circus con i quali, dal 2016, ha partecipato a due edizioni del Primo Maggio-Roma ed alla penultima edizione del Festival di Sanremo nella categoria Big. Cent’anni (nella versione studio con Giorgio Canali e Andrea Appino) è un estratto dal suo imminente lavoro d’esordio solista.
“Paesaggio”, di Giorgio Morandi
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“L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti. “Paesaggio”, di Giorgio Morandi (olio su tela 1936). Guardando alla storia dell’arte del Novecento, capiamo che sussistono due modi di essere dentro la realtà del proprio tempo. Esiste un tipo di artista che non può distogliere lo sguardo dalla storia, se ne fa interprete e risponde con colpi da ko figurativo. E questo è Picasso, che con Guernica non tarda a prendere i pennelli per esorcizzare le immagini del bombardamento della cittadina spagnola. Esistono poi pittori come Giorgio Morandi (Bologna, 1890 – 1964), che stringono il campo della visuale, si soffermano sull’evento meno clamoroso, per consegnarci un brano di realtà familiare che ci appare trasformato in un’immagine universale e senza tempo. Quello che abbiamo davanti agli occhi non è un tentativo di riprodurre fedelmente la realtà, ma una forma irripetibile e unica di pura poesia. Quell’immagine è qualcosa di presente e di assoluto. L’assoluto presente come evento. Qualcosa che è rarissimo vedere, a meno di non saper cogliere il miracolo della luce e dei colori come fa Morandi. Questo Paesaggio, dipinto nell’estate del 1936 a Grizzana, è quello contemplato per anni dalla collina dell’Appennino emiliano, dove l’artista saliva, con le sorelle, per riposare e dipingere in totale solitudine. Morandi usciva al mattino presto con tutto l’occorrente per disegnare e dipingere, incamminandosi per strade imbiancate dalla polvere. Lo guardiamo e subitamente siamo attratti in un tempo altro, che è quello della contemplazione. Quel dato paesaggio, osservato in un certo punto dello spazio vicino casa, in un dato momento della giornata, si è trasformato nel “paesaggio”. È come se sorgesse davanti a noi perfetto e fuori dallo scorrere del tempo, risuonando di luce e di colore nella indimenticabile emozione del momento. La luce e il colore, steso sulla superficie con fitte e continue pennellate a coprire forme geometricamente individuate sotto la natura delle cose, sono come un suono che si origina astratto portando con sé sensazioni e sentimenti. Morandi ci prende per mano delicatamente, per condurci a osservare il sentimento appena generato, con monumentale magnificenza, dalla necessità di una collina bagnata dal sole. L’immagine dipinta ci viene incontro come soglia tra noi e l’infinito, tra noi e l’eternità. Ovunque regna il colore più silenzioso, il colore come silenzio. Quel colore si differenzia, senza dividersi, e attraversa da parte a parte le singole figure, una casa, un filare di alberi, la schiena di una collina, un sentiero tra i campi. Una serie di colori tonali che sembrano ignorare gli elementi del paesaggio. Quei toni caldi, come versi elegiaci, di una corposità gessosa – marroni, rossi, ocra, verdi – sembrano vivere di vita propria e costruire oggetti piuttosto che riprodurli. Per raggiungere questa intensità di visione, Morandi si era imposto un regime di vita e di operatività ‘monacale’, che gli ha consentito di conquistare una dimensione poetica composta di umiltà e forza, una sensibilità assolutamente disponibile ad ascoltare-accogliere il miracoloso evento della realtà assieme a quello della verità in pittura. Morandi cerca, nella lentezza dei tocchi pittorici, di rallentare la visione fino all’impossibile arresto della stessa sulla cosa, in modo da contrastare, da una parte, la perdita di aura dell’immagine e, dall’altra, il consumo del mondo e della visione. Consumo inarrestabile e forse irreversibile, per cui, nel Novecento, la Cosa si è fatta solo copia, forma riproducibile, dogma. Morandi ha cura, invece, della cosa e dello sguardo, salva l’una dal farsi merce, l’altro dallo scadere nella riproduzione. Un atto eroico e rischioso di poeta nel tempo della ‘povertà’ che ci invita a compiere una riflessione sul nostro tempo, troppo povero di poesia nelle immagini e ricco, troppo ricco, di selfie e di post lanciati nella rete ad ogni istante. Copyright Sergio Risaliti Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini. Montaggio video: Antonella Nicola
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