“L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti “Cavallo”, di Marino Marini (bronzo, 1937)

Al museo Novecento, una sezione della collezione permanente s’intitola Cavalleria. La scelta del titolo è stata ovviamente motivata dal soggetto ricorrente nelle opere presentate: il cavallo, da solo o con il cavaliere. Ne sono parte, il Nitrito in velocità di Fortunato Depero, i Cavalli Marini, una ceramica dipinta di Lucio Fontana e Cavallo, un bellissimo bronzo di Marino Marini del 1937 circa.

La nostra scultura di Cavallo si staglia potentissima nello spazio assumendo quasi il ruolo magico di protettore, di guardiano. Esprime forza e fierezza, fedeltà e grazia, energia e indomita libertà. Sembra vivere da sempre, prima delle civiltà classiche, figlio di un tempo anteriore, di comunicazione a pelle tra uomo e animale, consumato in spazi liberi, nel bello e brutto tempo, in pace e in guerra. Porta su di se la fatica con grazie ed eleganza suprema. Sta immobile sulle sue esili, ma salde zampe, pronto a nitrire o scattare prima al trotto e poi fiero e felice al galoppo. Parlare dell’autore, Marino Marini, è parlare di uno dei grandi dell’arte moderna non solo italiana ma internazionale.

Marini, nato a Pistoia e morto a Viareggio, è ben conosciuto in tutto il mondo, quale grandissimo scultore di figure arcaiche e modernissime a un tempo. Celebri le sue Pomone, simboli di fecondità primitiva e inconscia, i suoi Miracoli, ultime meditazioni sulla drammaticità della storia e dell’arte, i suoi Cavalieri, protagonisti di una visione dialettica natura-tecnologia, uomo-macchina, e pure per i suoi equilibristi, giocolieri e ballerine, figure del circo e del teatro con le quali Marino dialoga con un tema caro al primo novecento di Picasso e dei Ballets Russi, di Severini e Genet. Non possiamo però non citare anche la grande produzione ritrattistica, che fa di Marino Marini uno dei grandi protagonisti del genere.

La vita di Marino si è spesa tra Firenze, perché in gioventù studia all’Accademia di Belle Arti, Parigi dove si reca giovanissimo nel 1919 e dove conosce l’opera di Maillol e Bourdelle, di Rodin, oltre a quella di Picasso; in seguito Monza, dove è chiamato a insegnare da Arturo Martini alla scuola d’arte della Villa Reale. La conoscenza di Martini è stata di fondamentale importanza per Marini, per capire il linguaggio arcaico e quello etrusco, la poesia e l’intellettualismo nella scultura. Dagli inizi degli anni quaranta e per tutta la sua vita, Marini vivrà a Milano salvo nuovi soggiorni a Parigi, viaggi in America e nel Nord Europa, e spesso a Forte del Marmi, dove passerà molto tempo tra cave e fonderie e a contatto con la natura e il mare.

Il Cavallo, esposto al Museo Novecento, è sempre lì in posa, elegantissimo nelle sue forme, nell’ampio volume del corpo, alleggerito con una linearità di profilo che dona grazia all’animale. Fuori dalle teorie e dalle diatribe linguistiche, dai rigidi formalismi di certe avanguardie, Marini va cercando una forma che sia colma di pensieri antichi, di esperienze primordiali, di una grazia superiore che è poi il dono che fa la poesia alle invenzioni artistiche.

Così, il Cavallo di Marini, vive fuori del tempo, ha qualcosa di divino; eppure è di questo mondo, ha vissuto con noi da sempre. E’ una presenza che esprime nelle forme plasmate con delicatezza e sicurezza anatomica tutta la sua naturale libertà e alterità, eppure è figura plastica fortemente umanizzata. Per Marini l’animale partecipa della vita dell’uomo da tempi remoti, prima della storia, e dell’uomo rispecchia le emozioni, ne conosce i moti segreti dell’anima. Passando in galleria, è veramente difficile trattenersi dallo sfiorare quel corpo di bronzo che respira, che trema di sensazioni a fior di pelle e che risente di vita vissuta e di contatti spirituali tra esseri così fraterni, anche se così diversi da sempre. E’ intoccabile non solo per ragioni di sicurezza e conservazione, ma per la sua aristocratica superiore provenienza. Se ne sta li, come sempre anche in questi giorni, nel museo che è chiuso a tutti, come guardiano fedele che vi aspetta.

Copyright Sergio Risaliti
Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini.
Montaggio video: Antonella Nicola

Posted on 21 Luglio 2020

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Posted on 12 Settembre 2020
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Posted on 21 Luglio 2020
“L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti “Giovane donna”, di Carlo Levi, (olio su tela, 1934) Medico e pittore Carlo Levi è noto al grande pubblico soprattutto come scrittore e per il suo impegno politico. I suoi più celebri romanzi sono: Cristo si è fermato a Eboli e L’orologio, dove esprime al meglio la sua visione del mondo, con un’attenta analisi delle condizioni di vita e culturali degli italiani, prima del boom economico. Tramite Piero Gobetti, di cui era amico dalla gioventù e con il quale condivideva la passione politica e l’antifascismo, Levi conobbe il pittore Felice Casorati, tra i maggiori esponenti del Realismo Magico. Fu incontro decisivo per dedicarsi con convinzione all’arte. Nei primi anni venti Levi, raggiunse Parigi, dove potette guardare dal vivo gli impressionisti, scoprire Modigliani e Matisse, la pittura dei Fauves. Con Chessa Menzio e Paolucci e altri condivise la volontà di maggiore libertà creativa e linguistica, rispetto alle costrizioni di scuole e accademie, e con loro esporrà in svariate occasioni tra il 1929 e il 1931. Per le sue idee politiche e le sue attività, Levi viene catturato e spedito al confino in Lucania dove rimane dal 1935 al 1936. Durante questo periodo si dedica alla pittura e al disegno, avendo modo poi di riflettere sulla storia sociale italiana, sulle dinamiche e i rapporti tra le classi, tra nord e sud, tra mondo industriale e civiltà contadina. Negli anni del dopoguerra, aderisce al Fronte nuovo delle Arti e diventa senatore della Repubblica negli anni Sessanta. Muore a Roma nel 1975. Giovane donna è dipinto da Levi nel 1934. Vi si riconosce una giovane donna, ritratta a mezzo busto. Il braccio sinistro è steso sulla testa. E’ un gesto comune nell’arte, ripetuto tante volte dalla modella davanti al pittore e poi di fronte a una macchina fotografica. E’ una giornata calda, lo conferma la scollatura della camicia a manica corta. I colori sono giallo, rosa, verde, azzurro e un po’ di grigio a confondere le acque. Lo sfondo suggerisce un “en plein aire”, un ritratto all’aria aperta, eseguito con una sprezzatura materica per dare voce al tumulto della sua vita interiore. La testa è reclinata, come per tedio, in un torpore femminile dai risvolti malinconici, o forse solo per vezzo, magari per alludere a un prima o dopo sentimentale, a un appagamento dei sensi. Levi non cerca di riprodurre la realtà, ma di crearne una nuova, un’entità colma di vita, che gode di una esistenza propria e che ad ogni pennellata, ad ogni tocco o stesura della materia si manifesta con una qualità e intensità pittorica che non è più da valutare in base alla fedeltà verso la cosa riprodotta quanto nell’essere equivalente allo stato d’animo di cui è ora il linguaggio. La qualità dell’immagine non sta nella corrispondenza tra soggetto e oggetto; c’è una ridondanza, un’eccedenza figurale che appartiene alla materia e al gesto del pittore, ormai intenzionato a essere strumento di trasmissione di altri valori rispetto al solo vedere, alla ricerca di una stesura pittorica come forma di linguaggio corrispettivo, a quel mondo interiore che trasmetta la verità dei sentimenti con la pittura. Il ductus, si fa sintomo di una relazione con il suo soggetto, che nel caso di Levi è relazione di tipo amoroso, compassionevole. Levi ha una grande passione per la vita e il vissuto, come hanno notato Calvino e Sartre. Il modo, dolce e carezzevole, con cui opera il pittore, condiziona la riconoscibilità dell’immagine, che tende a perdere i contorni figurativi, a non focalizzarsi sull’imitazione, quindi sul possesso del fantasma, quanto sulla tracciabilità della presenza, cioè sulla trasmissione di valori tattili da sguardo a corpo, sull’equivalenza tra gesto e sensazione. Siamo già oltre l’arte figurativa tradizionale con un piede nell’arte informale e gestuale. Se confrontassimo la stesura pittorica del quadro di Carlo Levi con uno di Giorgio Morandi potremmo cogliere il differente modo di stare dentro la vita di entrambi . Levi accetta di farsi aggredire dalla vita, Morandi si trattiene sempre a una certa distanza. La sua materia pittorica è sensibilizzata quanto quella di Morandi, tuttavia c’è in Levi un affondo maggiore, una partecipazione al calore della vita, alla tensione emotiva che non turba il pittore bolognese, una passione per la vita nell’altro che si trasmette nell’immagine pittorica attraverso la stesura dei colori, il modo in cui le forme, i lineamenti, la posa è modellata per restituire il flusso dei sentimenti e delle sensazioni. E questa prossimità agli altri, alla vita interiore immersa nella storia che fa di Levi un pittore e uno scrittore estremamente attuale, ancora oggi comprensibile e prossimo al nostro sentire. Copyright Sergio Risaliti Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini. Montaggio video: Antonella Nicola
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