L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti “Demolizioni”, di Mario Mafai (olio su tela, 1932).

Mafai è punta di diamante nella collezione Alberto Della Ragione, assieme a Guttuso e Birolli, a Scipione e Cagli. La loro presenza è segno di un interesse per un’arte vicina alla vita delle emozioni e dei sentimenti, a un’arte dell’esistenza ma anche del sogno, che non si piegasse troppo al realismo né si distaccasse dalla realtà, soprattutto quando questa è realtà violentata, dura, portatrice di dolore e sofferenza, quando gli incubi e i mostri della ragione si aggirano per le piazze e le strade. La loro pittura è sottesa d’impegno politico e sociale in difesa dell’uomo, dei suoi valori e delle sue utopie senza farsi manifesto ideologico.

Roberto Longhi riconoscerà negli esponenti della così detta Scuola Romana, che vedeva protagonisti assieme a Mafai anche Scipione, un genere di espressionismo colto, neo-romantico, trattenuto nei limiti di una poesia che non porta a distruggere la tradizione figurativa a favore di segni e superfici materiche informi, macerate e sconvolte dall’azione del profondo, delle piaghe inferte e del male ricevuto, affiorate senza volerle o poterle più contenere e ricondurle nell’ordine di una mondo figurativo più tradizionale.

Della relazione, tra il collezionista Della Ragione e l’artista, tra l’uomo sensibile e l’ingegnere appassionato, rimangono tracce evidenti nella collezione, donata alla città di Firenze ed esposta in parte al Museo Novecento. Sono ben venti i dipinti di Mafai in dotazione del Museo e tra questi Demolizioni. Il quadro raffigura un’immagine presa in diretta degli abbattimenti effettuati in Roma durante i primi anni del regime fascista, per ampliare i Fori Imperiali, secondo una progettazione urbanistica sottomessa ai sogni di grandiosità del regime.

Demolizioni si presenta come una pittura di cronaca, immagine che trasuda sentimenti e presagi. Le case sventrate, per le ambizioni retoriche di un’Italia, destinata a percorrere con i fasti di un nuovo imperialismo i giorni cupi e feroci della dittatura più violenta e disumana che la portarono a vivere la tragedia della guerra, i bombardamenti e le stragi prima della liberazione, sono un emblema. Il dipinto nasce per inquadrare e ricordare quanto provato alla fine di un’epoca, l’ottocento, che coincide anche con la fine di una stagione familiare. Eppure non riusciamo a non vedere altro, a giocare il senso del dipinto in anticipo.

“Noi assistiamo continuamente alla demolizione di tutto ciò che è appartenuto all’Ottocento ed io ne sono stato testimone quando ho visto la mia vecchia casa cadere e i muri crollare ad uno ad uno, le camere aprirsi un attimo alla luce e poi diventare calcinaccio e polvere“. Così scriveva Mafai rammentando la distruzione della sua casa durante í lavori per aprire la via dei Fori Imperiali. Dietro il tema delle Demolizioni scopriamo allora un ricordo personale e doloroso. Nel 1937, che è l’anno d’esecuzione del dipinto conservato al Museo Novecento, Mafai espone alla Galleria della Cometa ed è presentato in catalogo da Emilio Cecchi. Assieme alla serie dei Fiori secchi appare anche quella delle Demolizioni. Il critico suggerisce una lettura più formale dei dipinti, trovandovi una soluzione più asciutta e depurata del suo espressionismo iniziale. Pure Cesare Brandi, rimane colpito da quei dipinti e nel 1939 commenta: “Erano le rovine di Mafai, non i nobili acquedotti o i gruppi di sulfuree colonne, ma povere stanzucce borghesi sviscerate nella carta di Francia a brandelli, nelle fumate a cono dei camini; erano cellule infrante, ma ancora calde d’abitato, così da parere una delicatezza sbirciarle, così sventrate, dal di fuori “. Poi quelle immagini di una cronaca che riguarda la nuova identità urbana di Roma in quegli anni, si caricheranno di altri sentimenti e ricordi, con la sovrapposizione di una ben più violenta e tragica realtà. Questa è la forza dell’arte, mostrare un luogo e testimoniare un tempo che già prefigura altro. Riconoscere nel presente i segni del futuro.

Copyright Sergio Risaliti
Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini.
Montaggio video: Antonella Nicola

Posted on 21 Luglio 2020

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“L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti “Susanna e i vecchioni”, di Mino Maccari (olio su tela, 1942 ca.) La presenza delle opere di Mino Maccari nella collezione Della Ragione testimonia una personalità impegnata e coinvolta nelle vicende sociali e politiche del proprio tempo. In Alberto Della Ragione bruciava, seppure dissimulata dal suo carattere riservato di elegante borghese, un’autentica passione sociale e una forma di engagement di origine più ideale ed etica che ideologica e politica, che lo portava istintivamente, ma con convinzione, a sostenere battaglie a favore e in difesa di artisti impegnati. Della Ragione si prese cura degli artisti più ribelli e irriducibili come Guttuso e Vedova, di quelli in difficoltà economiche o in pericolo per questioni razziali che ospitò per metterli al sicuro, come fece ad esempio con la famiglia di Mario Mafia e Antonietta Raphael. Fu interessato anche a personalità complesse, dalla biografia non lineare, ma di tempra intellettuale come Mino Maccari. Di Maccari, natura curiosa, estrema, irriducibile martellatore dei costumi sociali e della degenerazione politica, Della Ragione acquistò molte opere, cinque delle quali sono ancora oggi conservate al Museo Novecento. Nato a Siena da una famiglia agiata della borghesia cittadina, Maccari si laurea in giurisprudenza pur avvertendo un’innata propensione alle arti e in particolare al disegno. Uscito dalla prima guerra mondiale, inizia a sviluppare in parallelo alla sua attività forense quella di pittore e incisore, la sua grande passione che lo renderà uno dei protagonisti della cultura italiana in generale e del giornalismo in particolare. Giovanissimo è reclutato da Il Selvaggio, di cui diventerà direttore nel 1926. Lo stile delle sue prime incisioni è fortemente influenzato dall’espressionismo nordico, da Ensor e Grosz, ma anche dalle immagini di Soutine e di Rouault, da cui deriva un sarcasmo acido e amaro, un’ironia graffiante e a tratti devastante, impostata senza pruderie e senza timori per svelare vizi e difetti della società, il turpe e il volgare, l’inettitudine politica e la degenerazione morale, con prese di posizione sempre molto irriverenti e libere. Il tratto nelle sue grafiche e nei suoi dipinti è nervoso e tagliente a tratti violento e aggressivo, i colori sono squillanti e vivaci, dominati da una temperatura sempre espressionistica. Dopo la guerra ebbe compiti istituzionali e accademici importanti, prima all’Accademia di Belle Arti di Napoli, poi a quella di Roma in veste di direttore nel 1959, infine di presidente dell’Accademia di San Luca nel 1962. Merita ricordare la sua collaborazione con il Maggio Musicale Fiorentino per il Falstaff di Verdi di cui disegnerà le scene per l’edizione del 1970. Maccari muore a Roma nel 1989. Susanna e i vecchioni è una storia biblica, conosciuta anche a livello popolare, più volte fatta oggetto di interpretazioni da parte degli artisti del passato. Merita ricordare le opere di Lorenzo Lotto datato 1515 circa e quella di Artemisia Gentileschi realizzata nel 1610 circa, o nella versione ottocentesca di Francesco Hayez. Non possiamo poi non citare Susanna o L’attesa una straordinaria scultura di Arturo Martini anch’essa parte della collezione permanente del Museo Novecento. Susanna nell’interpretazione virulenta di Maccari è una donna di bordello, accerchiata da infocati vecchioni di età diversa, abbrutiti dalla fame di sesso. Con i loro sguardi sembrano violentare il corpo nudo della donna. La pittura è sfatta, come i valori morali dell’ambiente italiano a cui sembra alludere la ‘vignetta’. Un mondo simile a quello analizzato con vena distruttiva dalla pittura o grafica satirica di Grosz cui Maccari deve molto. Il tessuto figurativo si disfa lasciando emergere un impasto sporcato di colori. I volti, le espressioni sono ghigni, come di maschere orribili e orripilanti, quello che si svolge nello spazio compresso, pregno di odori e sudori, morbosi e macerati, è un’orgia, un rito deprimente, forse un sacrificio. L’arte non fa sconti a nessuno, entra senza pudore, rimorsi, sensi di colpa e se si macchia è per mostrare ferite, portandoci al disgusto delle forme per avere disgusto di noi stessi. Prendere o lasciare. Copyright Sergio Risaliti Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini. Montaggio video: Antonella Nicola
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