“L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti “Giovane donna”, di Carlo Levi, (olio su tela, 1934)

Medico e pittore Carlo Levi è noto al grande pubblico soprattutto come scrittore e per il suo impegno politico. I suoi più celebri romanzi sono: Cristo si è fermato a Eboli e L’orologio, dove esprime al meglio la sua visione del mondo, con un’attenta analisi delle condizioni di vita e culturali degli italiani, prima del boom economico.

Tramite Piero Gobetti, di cui era amico dalla gioventù e con il quale condivideva la passione politica e l’antifascismo, Levi conobbe il pittore Felice Casorati, tra i maggiori esponenti del Realismo Magico. Fu incontro decisivo per dedicarsi con convinzione all’arte. Nei primi anni venti Levi, raggiunse Parigi, dove potette guardare dal vivo gli impressionisti, scoprire Modigliani e Matisse, la pittura dei Fauves. Con Chessa Menzio e Paolucci e altri condivise la volontà di maggiore libertà creativa e linguistica, rispetto alle costrizioni di scuole e accademie, e con loro esporrà in svariate occasioni tra il 1929 e il 1931. Per le sue idee politiche e le sue attività, Levi viene catturato e spedito al confino in Lucania dove rimane dal 1935 al 1936. Durante questo periodo si dedica alla pittura e al disegno, avendo modo poi di riflettere sulla storia sociale italiana, sulle dinamiche e i rapporti tra le classi, tra nord e sud, tra mondo industriale e civiltà contadina. Negli anni del dopoguerra, aderisce al Fronte nuovo delle Arti e diventa senatore della Repubblica negli anni Sessanta. Muore a Roma nel 1975.
Giovane donna è dipinto da Levi nel 1934. Vi si riconosce una giovane donna, ritratta a mezzo busto. Il braccio sinistro è steso sulla testa. E’ un gesto comune nell’arte, ripetuto tante volte dalla modella davanti al pittore e poi di fronte a una macchina fotografica. E’ una giornata calda, lo conferma la scollatura della camicia a manica corta. I colori sono giallo, rosa, verde, azzurro e un po’ di grigio a confondere le acque. Lo sfondo suggerisce un “en plein aire”, un ritratto all’aria aperta, eseguito con una sprezzatura materica per dare voce al tumulto della sua vita interiore. La testa è reclinata, come per tedio, in un torpore femminile dai risvolti malinconici, o forse solo per vezzo, magari per alludere a un prima o dopo sentimentale, a un appagamento dei sensi.
Levi non cerca di riprodurre la realtà, ma di crearne una nuova, un’entità colma di vita, che gode di una esistenza propria e che ad ogni pennellata, ad ogni tocco o stesura della materia si manifesta con una qualità e intensità pittorica che non è più da valutare in base alla fedeltà verso la cosa riprodotta quanto nell’essere equivalente allo stato d’animo di cui è ora il linguaggio. La qualità dell’immagine non sta nella corrispondenza tra soggetto e oggetto; c’è una ridondanza, un’eccedenza figurale che appartiene alla materia e al gesto del pittore, ormai intenzionato a essere strumento di trasmissione di altri valori rispetto al solo vedere, alla ricerca di una stesura pittorica come forma di linguaggio corrispettivo, a quel mondo interiore che trasmetta la verità dei sentimenti con la pittura. Il ductus, si fa sintomo di una relazione con il suo soggetto, che nel caso di Levi è relazione di tipo amoroso, compassionevole. Levi ha una grande passione per la vita e il vissuto, come hanno notato Calvino e Sartre. Il modo, dolce e carezzevole, con cui opera il pittore, condiziona la riconoscibilità dell’immagine, che tende a perdere i contorni figurativi, a non focalizzarsi sull’imitazione, quindi sul possesso del fantasma, quanto sulla tracciabilità della presenza, cioè sulla trasmissione di valori tattili da sguardo a corpo, sull’equivalenza tra gesto e sensazione. Siamo già oltre l’arte figurativa tradizionale con un piede nell’arte informale e gestuale.

Se confrontassimo la stesura pittorica del quadro di Carlo Levi con uno di Giorgio Morandi potremmo cogliere il differente modo di stare dentro la vita di entrambi . Levi accetta di farsi aggredire dalla vita, Morandi si trattiene sempre a una certa distanza. La sua materia pittorica è sensibilizzata quanto quella di Morandi, tuttavia c’è in Levi un affondo maggiore, una partecipazione al calore della vita, alla tensione emotiva che non turba il pittore bolognese, una passione per la vita nell’altro che si trasmette nell’immagine pittorica attraverso la stesura dei colori, il modo in cui le forme, i lineamenti, la posa è modellata per restituire il flusso dei sentimenti e delle sensazioni. E questa prossimità agli altri, alla vita interiore immersa nella storia che fa di Levi un pittore e uno scrittore estremamente attuale, ancora oggi comprensibile e prossimo al nostro sentire.

Copyright Sergio Risaliti
Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini.
Montaggio video: Antonella Nicola

Posted on 21 Luglio 2020

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Posted on 21 Luglio 2020
L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti “Demolizioni”, di Mario Mafai (olio su tela, 1932). Mafai è punta di diamante nella collezione Alberto Della Ragione, assieme a Guttuso e Birolli, a Scipione e Cagli. La loro presenza è segno di un interesse per un’arte vicina alla vita delle emozioni e dei sentimenti, a un’arte dell’esistenza ma anche del sogno, che non si piegasse troppo al realismo né si distaccasse dalla realtà, soprattutto quando questa è realtà violentata, dura, portatrice di dolore e sofferenza, quando gli incubi e i mostri della ragione si aggirano per le piazze e le strade. La loro pittura è sottesa d’impegno politico e sociale in difesa dell’uomo, dei suoi valori e delle sue utopie senza farsi manifesto ideologico. Roberto Longhi riconoscerà negli esponenti della così detta Scuola Romana, che vedeva protagonisti assieme a Mafai anche Scipione, un genere di espressionismo colto, neo-romantico, trattenuto nei limiti di una poesia che non porta a distruggere la tradizione figurativa a favore di segni e superfici materiche informi, macerate e sconvolte dall’azione del profondo, delle piaghe inferte e del male ricevuto, affiorate senza volerle o poterle più contenere e ricondurle nell’ordine di una mondo figurativo più tradizionale. Della relazione, tra il collezionista Della Ragione e l’artista, tra l’uomo sensibile e l’ingegnere appassionato, rimangono tracce evidenti nella collezione, donata alla città di Firenze ed esposta in parte al Museo Novecento. Sono ben venti i dipinti di Mafai in dotazione del Museo e tra questi Demolizioni. Il quadro raffigura un’immagine presa in diretta degli abbattimenti effettuati in Roma durante i primi anni del regime fascista, per ampliare i Fori Imperiali, secondo una progettazione urbanistica sottomessa ai sogni di grandiosità del regime. Demolizioni si presenta come una pittura di cronaca, immagine che trasuda sentimenti e presagi. Le case sventrate, per le ambizioni retoriche di un’Italia, destinata a percorrere con i fasti di un nuovo imperialismo i giorni cupi e feroci della dittatura più violenta e disumana che la portarono a vivere la tragedia della guerra, i bombardamenti e le stragi prima della liberazione, sono un emblema. Il dipinto nasce per inquadrare e ricordare quanto provato alla fine di un’epoca, l’ottocento, che coincide anche con la fine di una stagione familiare. Eppure non riusciamo a non vedere altro, a giocare il senso del dipinto in anticipo. “Noi assistiamo continuamente alla demolizione di tutto ciò che è appartenuto all’Ottocento ed io ne sono stato testimone quando ho visto la mia vecchia casa cadere e i muri crollare ad uno ad uno, le camere aprirsi un attimo alla luce e poi diventare calcinaccio e polvere“. Così scriveva Mafai rammentando la distruzione della sua casa durante í lavori per aprire la via dei Fori Imperiali. Dietro il tema delle Demolizioni scopriamo allora un ricordo personale e doloroso. Nel 1937, che è l’anno d’esecuzione del dipinto conservato al Museo Novecento, Mafai espone alla Galleria della Cometa ed è presentato in catalogo da Emilio Cecchi. Assieme alla serie dei Fiori secchi appare anche quella delle Demolizioni. Il critico suggerisce una lettura più formale dei dipinti, trovandovi una soluzione più asciutta e depurata del suo espressionismo iniziale. Pure Cesare Brandi, rimane colpito da quei dipinti e nel 1939 commenta: “Erano le rovine di Mafai, non i nobili acquedotti o i gruppi di sulfuree colonne, ma povere stanzucce borghesi sviscerate nella carta di Francia a brandelli, nelle fumate a cono dei camini; erano cellule infrante, ma ancora calde d’abitato, così da parere una delicatezza sbirciarle, così sventrate, dal di fuori “. Poi quelle immagini di una cronaca che riguarda la nuova identità urbana di Roma in quegli anni, si caricheranno di altri sentimenti e ricordi, con la sovrapposizione di una ben più violenta e tragica realtà. Questa è la forza dell’arte, mostrare un luogo e testimoniare un tempo che già prefigura altro. Riconoscere nel presente i segni del futuro. Copyright Sergio Risaliti Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini. Montaggio video: Antonella Nicola
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