“L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti.“Paesaggio”, Osvaldo Licini (olio su tela, 1928)

Osvaldo Licini studia all’Accademia di Bologna, dove incontra Morandi e Tozzi. Dell’incontro con il grande pittore di nature morte e paesaggi, resta qualcosa nei suoi dipinti, soprattutto nel Paesaggio conservato al Museo Novecento. Dopo l’Accademia partecipa alla grande guerra, è ferito, ricoverato e poi congedato. Si avvicina al movimento futurista ma il suo animo è diverso, di un’immaginazione più lirica, meno convulsa.
Durante la convalescenza raggiunge i genitori a Parigi e qui entra in contatto con Modigliani, Picasso, Cocteau, Soutine e si lega al gruppo degli italiani a Parigi, i così detti metechi, di stanza nella capitale delle avanguardie: De Chirico, Severini, De Pisis, Savinio e Tozzi. Fondamentale sarà per Licini assimilare dal vero la lezione pittorica di Cézanne, Matisse, Van Gogh e quella degli impressionisti e dei grandi maestri dell’ottocento che poteva ammirare e studiare al Louvre. Nel frattempo ha sposato una giovane pittrice svedese Nanny Hellströmm, e con lei rientrerà in Italia per stabilirsi definitivamente nel suo paese di origine, Monte Vidon Corrado, in vicinanza di Fermo nelle Marche. Da lì, comunque in una posizione defilata, riuscirà a restare in contatto con il mondo dell’arte italiana e internazionale. Alla metà degli anni trenta ecco un altro passaggio cruciale, Licini varca la soglia dell’astrazione. Entra in contatto con gli artisti della Galleria del Milione, con Fontana, Melotti, Rho, Reggiani e con loro espone a Torino nella prima mostra degli astrattisti organizzata da Casorati. Allo stesso tempo e con nuovo slancio torna a frequentare in brevi viaggi Parigi e si mette in contatto con il gruppo di Abstraction-Creation e conosce Kandinsky, Magnelli, Kupka. A questo punto arriva una nuova svolta, suscitata anche dal rapporto intellettuale e di amicizia con Franco Ciliberti, filosofo e storico delle religioni. Abbandonato il linguaggio astratto, più geometrico-analitico, apre al mondo degli archetipi e delle cifre simboliche, pur restando fedele a un canone aniconico. I suoi lavori, pregni di un sentimento magico dello spazio e dei segni, si popolano di figure mitiche e poetiche, e Licini si mette a creare dei cicli, quasi delle saghe e favole visive, in cui ricorrono certe figure come Olandesi volanti, Amalassunte e Angeli Ribelli.

La tela Paesaggio è di una bellezza struggente. Immortala un’ora speciale, un momento di epifania indimenticabile della natura, e tutta la risonanza sentimentale che quest’apparizione porta con sé. Il paesaggio è fatto di niente e di tutto, alberi, colline, cielo, una casa è l’unico elemento che certifica l’esistenza umana. Sicuramente un paesaggio dei suoi luoghi natii. C’è qualcosa di Leopardi, c’è qualcosa ancor più di Lucrezio, c’è qualcosa della musica per pianoforte di Debussy.
Sembra di rivivere la sensazione di calore e di freschezza di una giornata passata in campagna da ragazzino con le maniche corte, in mezzo ai campi e negli orti con la pelle percorsa da brividi per tutta la bellezza che ci circonda e ci appare come un angelo in un’annunciazione. Tempo, indimenticabile, in cui si è in sintonia con l’invisibile materia di cui è fatta la poesia della luce, quella particolare epifania luminosa del mondo che dona alle cose una diversa momentanea forma di esistenza. E’ frutto di una sensibile percezione, come di chi ancora guardando, osservando, resta preso nell’incanto, avviluppato nella sottile rete pulviscolare di atomi luminosi che si muovono dovunque. Il dipinto restituisce perfettamente il sentimento di quei momenti, quando si contempla il vibrare leggero dei fili d’erba e delle fronde, le ombra che si amalgamo con la calce colorata delle mura di casa, l’apparire del cielo che domina con una consistenza soffice le lontane colline, le basse montagne fittamente ricoperte di verde.
Avvicinandosi alla tela si nota il modo di procedere del pittore. La realtà delle cose è restituita con piccole pennellate accostate una all’altra con variazioni tonali armoniose e calme di colore, ridotti alle qualità del verde, dell’ocra, del grigio, del rosa e del celeste. Sono gli stessi colori insostituibili della tavolozza di Morandi. Si avverte, nella composizione visiva di questo Paesaggio, una musica, una sonorità un canto sottostante.

Copyright Sergio Risaliti
Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini.
Montaggio video: Antonella Nicola

Posted on 21 Luglio 2020

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7:27
Posted on 21 Luglio 2020
L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti “Demolizioni”, di Mario Mafai (olio su tela, 1932). Mafai è punta di diamante nella collezione Alberto Della Ragione, assieme a Guttuso e Birolli, a Scipione e Cagli. La loro presenza è segno di un interesse per un’arte vicina alla vita delle emozioni e dei sentimenti, a un’arte dell’esistenza ma anche del sogno, che non si piegasse troppo al realismo né si distaccasse dalla realtà, soprattutto quando questa è realtà violentata, dura, portatrice di dolore e sofferenza, quando gli incubi e i mostri della ragione si aggirano per le piazze e le strade. La loro pittura è sottesa d’impegno politico e sociale in difesa dell’uomo, dei suoi valori e delle sue utopie senza farsi manifesto ideologico. Roberto Longhi riconoscerà negli esponenti della così detta Scuola Romana, che vedeva protagonisti assieme a Mafai anche Scipione, un genere di espressionismo colto, neo-romantico, trattenuto nei limiti di una poesia che non porta a distruggere la tradizione figurativa a favore di segni e superfici materiche informi, macerate e sconvolte dall’azione del profondo, delle piaghe inferte e del male ricevuto, affiorate senza volerle o poterle più contenere e ricondurle nell’ordine di una mondo figurativo più tradizionale. Della relazione, tra il collezionista Della Ragione e l’artista, tra l’uomo sensibile e l’ingegnere appassionato, rimangono tracce evidenti nella collezione, donata alla città di Firenze ed esposta in parte al Museo Novecento. Sono ben venti i dipinti di Mafai in dotazione del Museo e tra questi Demolizioni. Il quadro raffigura un’immagine presa in diretta degli abbattimenti effettuati in Roma durante i primi anni del regime fascista, per ampliare i Fori Imperiali, secondo una progettazione urbanistica sottomessa ai sogni di grandiosità del regime. Demolizioni si presenta come una pittura di cronaca, immagine che trasuda sentimenti e presagi. Le case sventrate, per le ambizioni retoriche di un’Italia, destinata a percorrere con i fasti di un nuovo imperialismo i giorni cupi e feroci della dittatura più violenta e disumana che la portarono a vivere la tragedia della guerra, i bombardamenti e le stragi prima della liberazione, sono un emblema. Il dipinto nasce per inquadrare e ricordare quanto provato alla fine di un’epoca, l’ottocento, che coincide anche con la fine di una stagione familiare. Eppure non riusciamo a non vedere altro, a giocare il senso del dipinto in anticipo. “Noi assistiamo continuamente alla demolizione di tutto ciò che è appartenuto all’Ottocento ed io ne sono stato testimone quando ho visto la mia vecchia casa cadere e i muri crollare ad uno ad uno, le camere aprirsi un attimo alla luce e poi diventare calcinaccio e polvere“. Così scriveva Mafai rammentando la distruzione della sua casa durante í lavori per aprire la via dei Fori Imperiali. Dietro il tema delle Demolizioni scopriamo allora un ricordo personale e doloroso. Nel 1937, che è l’anno d’esecuzione del dipinto conservato al Museo Novecento, Mafai espone alla Galleria della Cometa ed è presentato in catalogo da Emilio Cecchi. Assieme alla serie dei Fiori secchi appare anche quella delle Demolizioni. Il critico suggerisce una lettura più formale dei dipinti, trovandovi una soluzione più asciutta e depurata del suo espressionismo iniziale. Pure Cesare Brandi, rimane colpito da quei dipinti e nel 1939 commenta: “Erano le rovine di Mafai, non i nobili acquedotti o i gruppi di sulfuree colonne, ma povere stanzucce borghesi sviscerate nella carta di Francia a brandelli, nelle fumate a cono dei camini; erano cellule infrante, ma ancora calde d’abitato, così da parere una delicatezza sbirciarle, così sventrate, dal di fuori “. Poi quelle immagini di una cronaca che riguarda la nuova identità urbana di Roma in quegli anni, si caricheranno di altri sentimenti e ricordi, con la sovrapposizione di una ben più violenta e tragica realtà. Questa è la forza dell’arte, mostrare un luogo e testimoniare un tempo che già prefigura altro. Riconoscere nel presente i segni del futuro. Copyright Sergio Risaliti Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini. Montaggio video: Antonella Nicola
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