Intervento Anne Lacaton 1 dicembre 2017

Posted on 19 Marzo 2018

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“Ritratto di Emilio Jesi”, di Antonietta Raphael Mafai
7:28
Posted on 21 Luglio 2020
“L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti “Ritratto di Emilio Jesi”, di Antonietta Raphael Mafai (onice, 1940) Nelle collezioni del Museo Novecento, fortunatamente, sono presenti opere di alcune delle più notevoli artiste del secolo scorso, e tra queste quelle di Antoniettà Raphaël, consorte di Mario Mafai. Di origine ebreo-lituana, Antonietta nasce a Kovno nei pressi di Vilnius. Con l’accentuarsi delle persecuzioni contro gli ebrei, rimasta orfana di padre, si trasferisce assieme alla madre a Londra nel 1905. Qui si perfeziona in pianoforte alla Royal Academy. Dal 1919 si sposta per l’Europa, fa tappa a Parigi e poi Roma, dove si stabilizza iniziando a frequentare l’Accademia di Belle Arti. Nell’Urbe conosce Mario Mafai che diverrà suo marito. Con lui, e assieme a Scipione e Mazzacurati, darà vita alla Scuola Romana. La sua pittura è antiaccademica, a tratti arcaica, con accenti popolari e colori fortemente espressivi. Agli inizi degli anni Trenta Antonietta soggiorna di nuovo a Parigi ma questa volta assieme al marito. Frequenta gli ambienti delle avanguardie, conosce le opere di Maillol e Bourdelle, frequenta l’atelier dello scultore Epstein. Dal 1938 si sposta a Genova assieme alla famiglia, per sfuggire alle persecuzioni razziali. Antonietta, Mario e le tre figlie vengono ospitati dall’ingegnere e collezionista Alberto Della Ragione, che mette a loro disposizione una villa a Quarto dei Mille. La necessità di un loro spostamento a Genova è stata sostenuta pure da Emilio Jesi, un altro mecenate della coppia di artisti, di cui Antonietta ha eseguito nel 1940 il bellissimo ritratto in onice, conservato al Museo Novecento. A Genova l’artista resterà con le figlie fino al 1952. Da quella data, fino al giorno della sua morte avvenuta a Roma nel 1975, Antonietta Raphael Mafai partecipa a svariate mostre in Italia e all’estero e nel 1959-60 in occasione della VII Quadriennale di Roma viene inserita tra i grandi protagonisti dell’arte italiana, assieme agli altri esponenti della Scuola Romana. Il ritratto di Emilio Jesi, in onice del Brasile, conservato al Museo Novecento è da considerarsi uno dei suoi capolavori. Jesi oltre ad essere un amico della coppia è un ambizioso concorrente in arte di Alberto Della Ragione. Jesi è un borghese a prima vista, nel vestire, nell’abitare, nell’atteggiarsi, nel modo di trattare gli affari che personalmente contrattava fino all’ultimo con gli artisti, arrivando a chiedere cambi nel caso le opere non si intonassero all’ambiente, una volta entrati in casa. Certo non riscuoteva la simpatia di Mafai e di Antonietta, eppure Jesi fu tra i primi ad avere in grande considerazione la scultrice più che la pittrice. Nacque da questo immediato e intuitivo apprezzamento il suo ritratto, eseguito in due versioni, una in bronzo, che resterà nelle mani del ritrattato e una in onice, che invece, fu acquistata da Alberto della Ragione, scatenando la gelosia e l’arrabbiatura dell’amico Jesi. Antonietta Raphael ritrae Jesi come un filosofo stoico o un imperatore romano; un volto rotondo che palesa salute, sagacia, furbizia. La materia aggiunge un qualcosa di magico all’espressione, come se la scultrice dialogasse, in questo ritratto, con gli autori del Realismo Magico, per cercare nel verismo dell’immagine qualcosa di più arcaico e misterioso. Cioè, non tanto indagando il carattere del collezionista ma il rapporto inerente il linguaggio scultoreo tra ritrattistica e sopravvivenza, tra effige e morte. Con gli occhi socchiusi Emilio Jesi sembra tollerare ogni accidente, ogni impiccio e preoccupazioni, guardando da un mondo ormai sovrannaturale tutto quello che ci sta accadendo. Copyright Sergio Risaliti Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini. Montaggio video: Antonella Nicola
“Paesaggio”, di Osvaldo Licini
7:32
Posted on 21 Luglio 2020
“L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti.“Paesaggio”, Osvaldo Licini (olio su tela, 1928) Osvaldo Licini studia all’Accademia di Bologna, dove incontra Morandi e Tozzi. Dell’incontro con il grande pittore di nature morte e paesaggi, resta qualcosa nei suoi dipinti, soprattutto nel Paesaggio conservato al Museo Novecento. Dopo l’Accademia partecipa alla grande guerra, è ferito, ricoverato e poi congedato. Si avvicina al movimento futurista ma il suo animo è diverso, di un’immaginazione più lirica, meno convulsa. Durante la convalescenza raggiunge i genitori a Parigi e qui entra in contatto con Modigliani, Picasso, Cocteau, Soutine e si lega al gruppo degli italiani a Parigi, i così detti metechi, di stanza nella capitale delle avanguardie: De Chirico, Severini, De Pisis, Savinio e Tozzi. Fondamentale sarà per Licini assimilare dal vero la lezione pittorica di Cézanne, Matisse, Van Gogh e quella degli impressionisti e dei grandi maestri dell’ottocento che poteva ammirare e studiare al Louvre. Nel frattempo ha sposato una giovane pittrice svedese Nanny Hellströmm, e con lei rientrerà in Italia per stabilirsi definitivamente nel suo paese di origine, Monte Vidon Corrado, in vicinanza di Fermo nelle Marche. Da lì, comunque in una posizione defilata, riuscirà a restare in contatto con il mondo dell’arte italiana e internazionale. Alla metà degli anni trenta ecco un altro passaggio cruciale, Licini varca la soglia dell’astrazione. Entra in contatto con gli artisti della Galleria del Milione, con Fontana, Melotti, Rho, Reggiani e con loro espone a Torino nella prima mostra degli astrattisti organizzata da Casorati. Allo stesso tempo e con nuovo slancio torna a frequentare in brevi viaggi Parigi e si mette in contatto con il gruppo di Abstraction-Creation e conosce Kandinsky, Magnelli, Kupka. A questo punto arriva una nuova svolta, suscitata anche dal rapporto intellettuale e di amicizia con Franco Ciliberti, filosofo e storico delle religioni. Abbandonato il linguaggio astratto, più geometrico-analitico, apre al mondo degli archetipi e delle cifre simboliche, pur restando fedele a un canone aniconico. I suoi lavori, pregni di un sentimento magico dello spazio e dei segni, si popolano di figure mitiche e poetiche, e Licini si mette a creare dei cicli, quasi delle saghe e favole visive, in cui ricorrono certe figure come Olandesi volanti, Amalassunte e Angeli Ribelli. La tela Paesaggio è di una bellezza struggente. Immortala un’ora speciale, un momento di epifania indimenticabile della natura, e tutta la risonanza sentimentale che quest’apparizione porta con sé. Il paesaggio è fatto di niente e di tutto, alberi, colline, cielo, una casa è l’unico elemento che certifica l’esistenza umana. Sicuramente un paesaggio dei suoi luoghi natii. C’è qualcosa di Leopardi, c’è qualcosa ancor più di Lucrezio, c’è qualcosa della musica per pianoforte di Debussy. Sembra di rivivere la sensazione di calore e di freschezza di una giornata passata in campagna da ragazzino con le maniche corte, in mezzo ai campi e negli orti con la pelle percorsa da brividi per tutta la bellezza che ci circonda e ci appare come un angelo in un’annunciazione. Tempo, indimenticabile, in cui si è in sintonia con l’invisibile materia di cui è fatta la poesia della luce, quella particolare epifania luminosa del mondo che dona alle cose una diversa momentanea forma di esistenza. E’ frutto di una sensibile percezione, come di chi ancora guardando, osservando, resta preso nell’incanto, avviluppato nella sottile rete pulviscolare di atomi luminosi che si muovono dovunque. Il dipinto restituisce perfettamente il sentimento di quei momenti, quando si contempla il vibrare leggero dei fili d’erba e delle fronde, le ombra che si amalgamo con la calce colorata delle mura di casa, l’apparire del cielo che domina con una consistenza soffice le lontane colline, le basse montagne fittamente ricoperte di verde. Avvicinandosi alla tela si nota il modo di procedere del pittore. La realtà delle cose è restituita con piccole pennellate accostate una all’altra con variazioni tonali armoniose e calme di colore, ridotti alle qualità del verde, dell’ocra, del grigio, del rosa e del celeste. Sono gli stessi colori insostituibili della tavolozza di Morandi. Si avverte, nella composizione visiva di questo Paesaggio, una musica, una sonorità un canto sottostante. Copyright Sergio Risaliti Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini. Montaggio video: Antonella Nicola
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