“L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti. “Tele e pennelli” di Filippo De Pisis (Olio su tela, 1942)

Sul piano inclinato del tavolo vediamo una pipa da fumo, pennelli in un barattolo, libri accostati in fila, una bottiglia di vetro, la tavolozza da pittore, il retro di una tela. Gli oggetti sembrano toccarsi l’uno con l’altro, in un gioco di relazioni consequenziali, che raccontano il quotidiano lavoro nello studio, il gioco illusorio della pittura, la geografia di interessi letterari, poetici, scientifici, di riflessione rallentata e di furor nell’esecuzione.

In questo dipinto di Filippo de Pisis (Ferrara, 1896 – Brugherio, 1956) tutto rinvia al mestiere del pittore, alla vita dell’artista. I pennelli appena usati sono stati riposti nel barattolo. La pipa è appoggiata sul piano e potrebbe essere ancora calda. Ricorda come l’attività dello scrittore-pittore necessiti di pause, di istanti di contemplazione nel vuoto, di distrazione per recuperare energia e qualche immagine inattesa. I volumi accostati uno all’altro stanno, invece, a significare letteratura e poesia, tragedie antiche e romanzi moderni. Anche nel nostro quadro ritorna la bottiglia, sicuramente di vino, perché senza il liquido dionisiaco non c’è mania, sacro furore. Vi si legge un’allusione alla vita bohémienne di cui l’artista amava circondarsi e agli incontri-scontri amorosi, vitali per il nostro candido reazionario. Non manca neppure la tavolozza, sporca dei colori, pasticciati, confusi, come sono confuse le sensazioni quando la sensualità prevale sull’intelligenza delle cose. La sigla VR indica l’esatto luogo e il tempo dell’esecuzione: siamo a Milano, in via Rugabella. Tra le costole dei libri e la punta dei pennelli s’incunea una tela. Presentata al rovescio. Si vede il telaio, la sua costruzione. Il tessuto inchiodato al lato del legno. Quella tela rovesciata, quadro nel quadro, mostra l’altra faccia della medaglia e ci svela il mistero e il piacere della pittura, l’illusione dell’immagine dipinta. Il linguaggio figurativo non è riproduzione della realtà, imitazione, ma è gioco della mente e avventura dei sensi. Tecnicamente un teatrino in cui l’artista dispone i suoi oggetti emblematici, le immagini delle cose che lo eccitano e rappresentano, l’orizzonte esterno e quello intimo, chiavi di accesso all’inconscio.

Copyright Sergio Risaliti
Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini.
Montaggio video: Antonella Nicola

Posted on 21 Luglio 2020

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“Demolizioni”, di Mario Mafai
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Posted on 21 Luglio 2020
L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti “Demolizioni”, di Mario Mafai (olio su tela, 1932). Mafai è punta di diamante nella collezione Alberto Della Ragione, assieme a Guttuso e Birolli, a Scipione e Cagli. La loro presenza è segno di un interesse per un’arte vicina alla vita delle emozioni e dei sentimenti, a un’arte dell’esistenza ma anche del sogno, che non si piegasse troppo al realismo né si distaccasse dalla realtà, soprattutto quando questa è realtà violentata, dura, portatrice di dolore e sofferenza, quando gli incubi e i mostri della ragione si aggirano per le piazze e le strade. La loro pittura è sottesa d’impegno politico e sociale in difesa dell’uomo, dei suoi valori e delle sue utopie senza farsi manifesto ideologico. Roberto Longhi riconoscerà negli esponenti della così detta Scuola Romana, che vedeva protagonisti assieme a Mafai anche Scipione, un genere di espressionismo colto, neo-romantico, trattenuto nei limiti di una poesia che non porta a distruggere la tradizione figurativa a favore di segni e superfici materiche informi, macerate e sconvolte dall’azione del profondo, delle piaghe inferte e del male ricevuto, affiorate senza volerle o poterle più contenere e ricondurle nell’ordine di una mondo figurativo più tradizionale. Della relazione, tra il collezionista Della Ragione e l’artista, tra l’uomo sensibile e l’ingegnere appassionato, rimangono tracce evidenti nella collezione, donata alla città di Firenze ed esposta in parte al Museo Novecento. Sono ben venti i dipinti di Mafai in dotazione del Museo e tra questi Demolizioni. Il quadro raffigura un’immagine presa in diretta degli abbattimenti effettuati in Roma durante i primi anni del regime fascista, per ampliare i Fori Imperiali, secondo una progettazione urbanistica sottomessa ai sogni di grandiosità del regime. Demolizioni si presenta come una pittura di cronaca, immagine che trasuda sentimenti e presagi. Le case sventrate, per le ambizioni retoriche di un’Italia, destinata a percorrere con i fasti di un nuovo imperialismo i giorni cupi e feroci della dittatura più violenta e disumana che la portarono a vivere la tragedia della guerra, i bombardamenti e le stragi prima della liberazione, sono un emblema. Il dipinto nasce per inquadrare e ricordare quanto provato alla fine di un’epoca, l’ottocento, che coincide anche con la fine di una stagione familiare. Eppure non riusciamo a non vedere altro, a giocare il senso del dipinto in anticipo. “Noi assistiamo continuamente alla demolizione di tutto ciò che è appartenuto all’Ottocento ed io ne sono stato testimone quando ho visto la mia vecchia casa cadere e i muri crollare ad uno ad uno, le camere aprirsi un attimo alla luce e poi diventare calcinaccio e polvere“. Così scriveva Mafai rammentando la distruzione della sua casa durante í lavori per aprire la via dei Fori Imperiali. Dietro il tema delle Demolizioni scopriamo allora un ricordo personale e doloroso. Nel 1937, che è l’anno d’esecuzione del dipinto conservato al Museo Novecento, Mafai espone alla Galleria della Cometa ed è presentato in catalogo da Emilio Cecchi. Assieme alla serie dei Fiori secchi appare anche quella delle Demolizioni. Il critico suggerisce una lettura più formale dei dipinti, trovandovi una soluzione più asciutta e depurata del suo espressionismo iniziale. Pure Cesare Brandi, rimane colpito da quei dipinti e nel 1939 commenta: “Erano le rovine di Mafai, non i nobili acquedotti o i gruppi di sulfuree colonne, ma povere stanzucce borghesi sviscerate nella carta di Francia a brandelli, nelle fumate a cono dei camini; erano cellule infrante, ma ancora calde d’abitato, così da parere una delicatezza sbirciarle, così sventrate, dal di fuori “. Poi quelle immagini di una cronaca che riguarda la nuova identità urbana di Roma in quegli anni, si caricheranno di altri sentimenti e ricordi, con la sovrapposizione di una ben più violenta e tragica realtà. Questa è la forza dell’arte, mostrare un luogo e testimoniare un tempo che già prefigura altro. Riconoscere nel presente i segni del futuro. Copyright Sergio Risaliti Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini. Montaggio video: Antonella Nicola
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