Todo Cambia attualita’ e cultura con Raffaele Palunbo

Posted on 6 Maggio 2020

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“San Francesco predica agli uccelli”, di Filippo de Pisis
8:56
Posted on 21 Luglio 2020
“L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti.“San Francesco predica agli uccelli”, Filippo de Pisis (olio su tela, 1931 ca.) Filippo De Pisis vuol vivere una vita frenetica, nervosa, di intellettuale a 360 gradi, dedita tanto all’arte e alla poesia quanto all’eros e al sesso. Tutti questi livelli si intrecciano e rifioriscono nella sua pittura, che nello stile risente della sua ipersensibilità e tensione nervosa, seppur controllata, in una distaccata aristocratica relazione con la realtà. I suoi dipinti infatti hanno l’aspetto di allegorie. Gli oggetti e le figure in essi rappresentati, dall’espressa funzione simbolica, vanno interpretati, per assonanze fonetiche e mnemoniche, come messaggeri e chiavi di accesso alla biografia esistenziale e sentimentale dell’artista, la cui vita interiore fu terreno di conflitti e battaglie con il mondo circostante, luogo ben difeso dove coltivare le proprie passioni e i propri desideri. Letterato raffinato, bulimico lettore, De Pisis passa velocemente, e con un dispendio fisico oltre che cerebrale, dallo scrivere al dipingere, dal pensare filosoficamente al sentire la realtà come pittore più sensuale che mentale. L’artista ritrova la realtà nella materialità di colore e segno, nel consumarsi dell’immaginazione dipingendo; qui si incontrano il calore e il respiro della vita, l’erotismo e l’edonismo, il sesso e la carne, gli odori e i sapori. Il San Francesco è un quadro da meditazione, da guardare facendo vuoto e dandosi un po’ di quiete per raggiungere una calma interiore. Una via di iniziazione alla vera vita, all’eternità qua sulla terra in ogni giorno dell’esistenza. Si tratta di un olio su tela databile intorno al 1931. Un paesaggio italiano, costruito immaginando i luoghi attraversati dal poverello di Assisi, che viveva in perfetta armonia con la natura e amava “nella peculiare luce di Dio”. Sotto una parete rocciosa alta, incombente, si riesce appena a percepire frate Francesco, coperto nel suo saio di ruvida tela che si inchina verso un assembramento di volatili, colombi, passeri, una cornacchia e un corvo. Piccoli puntini in bianco e nero. Macchioline. In alto si vedono transitare candide nubi, appena sfrangiate in punta di pennello. Dall’alto della roccia scende una cascatella di acqua. Qui la santità è in versione lirica, sentimentale, eppure di grande respiro. Universale nel suo minimalismo poetico. Un albero, una quercia, si piega abbarbicata alla rupe. Macchie di arbusti verdastri, ciuffi di fiorellini di campo. Il lento cadere della cascata sovrasta nella quiete le parole di Francesco ai suoi piccoli amici. Difficile sapere cosa si siano detti l’uomo e le piccole creature del cielo, quel giorno. Mistero e miracolo a un tempo. Il pittore entra in punta di piedi nella scena, una delle più celebri tra quelle della Legenda maior, se ne sta lontano, in disparte. Qui la via di salvezza per l’umanità è l’arte, la poesia, la potenza dell’umiltà del poverello, la santità della natura. Un’immagine che nel nostro tempo ci serve da monito e da guida. Alle spalle dell’artista, colto e addentro alla storia dell’arte, ci sono almeno due capolavori. La Predica agli uccelli affrescata da Giotto in Assisi, dove la storia dell’arte moderna è cominciata. E il dipinto di Giovanni Bellini con San Francesco in estasi databile al 1476-78. Il frate è appena uscito dal suo romitorio scavato nella montagna, si affaccia su un vasto paesaggio, allarga le braccia contemplando il creato, si unisce a tutta quella grandiosa bellezza. In estatica riconciliazione. Almeno per me, quello di Bellini conservato a New York, nelle sale della The Frick Collection, è uno dei quadri più belli al mondo. E questo di De Pisis, così dolce e immenso, può sicuramente stare alla pari con quello. Copyright Sergio Risaliti Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini. Montaggio video: Antonella Nicola
“Natura morta”, di Giorgio Morandi
8:05
Posted on 21 Luglio 2020
“L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti “Natura morta”, di Giorgio Morandi (olio su tela, 1923-1925) Quando si dice “natura morta” e si fa il nome di Giorgio Morandi si parla di un silente accordo tra cose e sentimenti che torna sempre uguale e sempre diverso, come sempre identica è l’essenza delle cose, la loro forma ideale, ma sempre variato è il sentimento di chi le contempla perché la luce su di esse e in esse muta nel momento della sua epifania, e con la luce si rinnovano le sensazioni. Con le sue costruzioni così essenziali e così quotidiane, questo grande pittore ci ha portato oltre il visibile, senza mai abbandonarlo; restando, cioè, su quella sottilissima soglia che separa e lega il mondo reale con l’altro, quello invisibile. Quella di Morandi è un’immagine costruita con tocchi lentissimi di pennellate scelti per dare fisicità pittorica a un’intensità emotiva, a una fenomenologia di sentimenti, che si propaga nello spazio e si materializza negli oggetti tramite la luce. Una luce che ci appare pregna in ogni sua particella di quanto di umano si distacca dall’animo del pittore per depositarsi e assolutizzarsi in una dimensione formale-visiva che è appunto una dimensione metafisica e spirituale, costruita con lentezza e concentrazione, senza urti né accelerazioni, senza agitazione, turgidezza o nervosismo ma adagio, adagio con moto e sentimento, come se le singole pennellate fossero note musicali di una composizione per clavicembalo ben temperato. Guardando la Natura morta conservata al Museo Novecento, un dipinto datato 1928, si ha la certezza di stare davanti a un capolavoro. Quanto di assoluto e di particolare s’immortala in quell’immagine va diretto a colpire nel segno, nel punto di una congiunzione visiva d’intelligenza e sentimento, che è poi quella di eternità e divenire, di assoluto e relativo. Non possiamo che dire: Ecco questa è arte, questo deve fare l’arte. Deve farci credere all’immortalità e perennità del sentimento dell’epifania dell’assoluto nel reale, della verità del mondo nel momento, farci illudere dell’esistenza dell’assoluto e dell’imperturbabile dietro la presenza visibile delle cose. Quello che stiamo contemplando è lì, in un interspazio, in una dimensione quantica, dove la materia è fatta di risonanze e vibrazioni, energia che non si disperde, che non si contamina, e che resta al contrario pura nella sua essenza, aderente nella sua immanenza. È un mondo, quello di Morandi, in cui i soggetti si riducono all’essenziale per girare al minimo. Ecco perché la sua arte ci appare come azione estrema, quando giunta al limite di un cammino che altri avrebbe condotto all’astrazione, si ferma senza arretrare, avendo scelto da sempre una forma di gnosi pittorica che, estraendo dalla realtà la verità immota, giunge a perpetuare l’immagine di un oggetto nelle costanti variazioni sentimentali della forma-colore. Morandi per Longhi sceglie soggetti umili per dire poeticamente la verità: oggetti e luoghi che, isolati dal rapido corso del tempo e dal caos del mondo, restano, tra le mani dell’artista come “simboli necessari, vocaboli sufficienti ad evitare le secche dell’astrattismo”. Oggetti di casa, elementi affettivi, paesaggi contemplati dalla finestra, così dimessi e modesti da apparire remissivi a un linguaggio metafisico cui è restituita lentamente la luce dell’immortalità. Un farsi evento dell’immagine nell’istante in cui la mimesi conosce il suo tramonto, la sua cecità. Morandi è un eroe del novecento che ha saputo sconfiggere la morte, la violenza, l’entropia, restando sul posto, senza far parlare di sé con azioni titaniche o trasformazioni mostruose. Non è entrato nella storia dell’arte con il passo e l’invadenza né di Picasso né di Pollock. La grandezza di Morandi sta in una caparbia e umile lotta consumata fino alla fine per la vittoria dell’umanità contro il nullificante nulla ,così lo chiamava Hegel; una vittoria portata a casa con i soli mezzi dell’arte che nell’animo dell’artista può accordarsi nella sua giornaliera battaglia con una intensa capacità di ascolto e di concentrazione che è quella della poesia. Suo compito era raggiungere la verità del mondo senza distruggere l’emozione per la bellezza insita nel suo apparire, o con le sue parole: “ Quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose”. Copyright Sergio Risaliti Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini. Montaggio video: Antonella Nicola
Anni ’80 a Firenze: incontri con i protagonisti, i talk! – Antonio Aiazzi e Gianni Maroccolo
57:29
Posted on 13 Dicembre 2020
Era il 18 febbraio 1982 quando i Litfiba, stimolati da Bruno Casini, proposero al Casablanca di Rifredi, Mephisto Festa, un'indimenticabile performance sonora. Antonio Aiazzi e Gianni Maroccolo, ricordando l’evento e i 40 anni dall'esordio dei Litfiba, parlano in anteprima di “Mephisto Ballad”, il loro nuovo progetto discografico che li vede cimentarsi per la prima volta in duo. Bruno Casini e Gimmy Tranquillo intervistano Antonio Aiazzi e Gianni Maroccolo, con la partecipazione di Vincenzo Striano, presidente del Centro Casablanca, e Andrea Sbandati di Radio Cento Fiori.
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